Edlizia sostenibile, tra nuove sfide e occasioni mancate

È possibile immaginare un cambio di passo nel settore dell’edilizia? È possibile rompere, finalmente, equilibri immobili e interessi granitici? Edilizia è, nell’accezione più generica eppure più nobile, dare la possibilità all’uomo di edificare la propria visione, sia che ciò accada in ambito pubblico che in quello più strettamente privato. Permessi a costruire, riqualificazione e rottamazione degli edifici esistenti, sicurezza e sostenibilità energetica sono alcuni degli asset fondamentali per declinare, oggi, l’idea di edilizia. Tra incentivi (sisma bonus, eco bonus e Piano Casa) e nuove normative (Codice degli Appalti, consumo di suolo e Regolamento unico per l’edilizia) c’è un intero comparto che attende solo la sua occasione per poter raccogliere il guanto di sfida verso l’innovazione.

Demolizione e ricostruzione: il superamento di un tabù
Sono oltre 7 milioni gli edifici localizzati in zone a rischio sismico e idrogeologico. Ospitano, in totale, circa 30 milioni di cittadini. La maggior parte dell’edilizia non storica (1945) è stata realizzata prima degli anni ’70 e, dunque, negli anni antecedenti al varo della prima normativa antisismica. Parliamo di edifici già ben oltre il giro di boa del proprio ciclo di vita, che vantano stati di conservazione più che discutibili. Infrastrutture, in larga parte, ampiamente energivore. A tal proposito, il CNAPP suggerisce il “superamento del tabù della demolizione e ricostruzione”. In sostanza, per gli operatori di settore “conviene davvero abbattere qualche muro, cancellando così anche i nefasti risultati della pianificazione scorretta degli anni Sessanta, realizzando contestualmente scuole, asili, negozi e centri culturali. […] In Europa si trovano molti esempi di brutte periferie demolite e ricostruite come nuovi quartieri urbani integrati.”
Ma i costi, nel Belpaese, scoraggiano ancora gli investimenti in tal senso. Le misure riservate agli interventi di sostituzione edilizia risultano, nel loro complesso, penalizzanti. Basti pensare, ad esempio, agli oneri di urbanizzazione e ricostruzione per volumi insistenti sullo stesso sedime. Superando l’atavico principio della fedeltà a tutti i costi e ottimizzando gli strumenti disponibili – IVA al 10 %, credito d’imposta e volumetrie aggiuntive in applicazione del Piano Casa – si potrebbe con una certa agilità, persino nel contesto italiano, far passare il principio che sostituzione fa rima con ristrutturazione.

Riqualificazione degli immobili residenziali
Il comparto della riqualificazione degli immobili residenziali in questi anni di crisi è stato l’unico settore che ha mostrato una tenuta dei livelli produttivi, rappresentando il 70% del fatturato del settore edilizio. Nella proprietà immobiliare si ritrova, come noto, larga parte del patrimonio privato nazionale: circa 1/3 della ricchezza complessiva degli italiani che va inesorabilmente svalutandosi e deteriorandosi. A questo quadro complessivo va aggiunto un dato ulteriore: circa il 35% dell’energia complessivamente consumata in Italia è destinata agli edifici. E lo spreco stimato, che incide direttamente sui bilanci delle famiglie italiane, si aggira intorno ai 20 miliardi di euro. Parliamo di consumi energetici per 500kWh/mq, contro i 200 della Danimarca e i 360 kWh/mq della media europea.
In questo contesto, l’esigenza evidente è quella di una nuova razionalizzazione oltre che di un rinnovato bilanciamento tra produzione e risparmio di energia. In sostanza, sarebbero necessari investimenti infrastrutturali e interventi puntuali nelle aree urbane. Per citare solo un esempio, tra gli altri, è opportuno ricordare che gli investimenti nelle nostre città sono scesi a 7 miliardi di euro a fronte dei 50 miliardi stanziati dal programma francese. La logica di tali scelte, seppur calata nella difficile congiuntura che continua a interessare il settore, appare davvero poco comprensibile. Soprattutto se si pensa che è stato ampiamente dimostrato – in Francia come in Germania – che ogni euro investito in edilizia produce circa 3 euro di ritorno nelle casse pubbliche, in termini di tasse e di diminuzione di costi sociali.

Una rapida panoramica sui piani di recupero urbani
Il processo che sta conducendo alla definizione della normativa sui cosiddetti Piani di Recupero Urbani è in continua evoluzione: dai “programmi integrati e complessi” degli anni ’90 (leggi 203/1991 e 172/1992), si è passati ai “programmi integrati di intervento di iniziativa comunale”. Nel 1992 vengono sperimentati, a livello nazionale, i “programmi di riqualificazione urbana PRIU” (art. 2 della legge 179/92). I “contratti di quartiere”, invece, vengono rilanciati nel 1993 e nel 2000.
Negli anni successivi si è assistito al tentativo, parzialmente riuscito, di costruire un partenariato pubblico-privato di natura stabile attraverso le “società di trasformazione urbana STU”. Sul finire degli anni ’90 è stato il tempo dei “programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile PRUSST” e, ancora, dei programmi URBAN (1994 e 2000) dedicati prioritariamente alle città del Mezzogiorno.
Infine, il “piano città” del 2012 evidenzia quanto ancora sia ampio il divario esistente tra aspettative e risultati. Oggi, attraverso la vision del senatore Renzo Piano, si ricomincia a parlare di “rammendo delle periferie”. Eppure, ancora lontana appare la strada che conduce a un’uniformità d’intenti e di progettualità sulla materia.

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CAM, le nuove regole per gli appalti in chiave green

Edilizia chiama, il Ministero dell’Ambiente risponde. Le recenti novità introdotte dai Criteri Ambientali Minimi (CAM) – Dm 11 ottobre 2017 – fanno già discutere gli operatori di settore. Nati per regolamentare in chiave green l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per le nuove costruzioni, ristrutturazione e manutenzione degli edifici pubblici, i CAM appartengono alla famiglia normativa del nuovo Codice degli Appalti.

Ambiti di applicazione
Innanzitutto il Ministero dell’Ambiente chiarisce che i CAM si applicano obbligatoriamente a tutti gli interventi previsti dal decreto. In tutti gli altri casi, non sono considerati obbligatori ma il decreto prescrive che la Stazione Appaltante debba tenerli in considerazione. Per quanto concerne i soggetti abilitati a effettuare la diagnosi energetica, in base ai CAM la Stazione Appaltante deve accertare che la progettazione sia affidata a professionisti accreditati. In tal senso, il Dicastero ha precisato che si tratta di figure professionali che hanno sostenuto e superato un esame di accreditamento presso Organismi di livello nazionale o internazionale riconosciuti e, a loro volta, adeguatamente accreditati (ISO/IEC 17024) e abilitati al rilascio di una Certificazione energetico-ambientale degli edifici secondo i più diffusi rating systems (LEED, WELL, BREEAM, etc). In più, ai professionisti sono richieste competenze generali sulla sostenibilità degli edifici.

Il criterio del “fine vita”
“Gli impianti di un edificio sono inclusi nel piano di disassemblaggio.” Tra le più recenti risposte ministeriali – pubblicata nelle Faq nell’ultimo aggiornamento – ai dubbi sollevati dagli operatori di settore, c’è quella relativa al criterio del fine vita (criterio 2.3.7). Nel dettaglio, il Ministero precisa che “lo scopo del criterio è acquisire le informazioni utili alla fase di fine vita dell’edificio a beneficio della Stazione Appaltante. Nella verifica si chiede un elenco di tutti i materiali e componenti che possono essere in seguito riutilizzati o riciclati, con l’indicazione del relativo peso rispetto al totale dell’edificio.”
“Nel caso degli impianti – aggiunge – quelli che sono stati progettati per essere disassemblabili e riciclabili andranno inclusi nel piano di disassemblaggio, quelli che non lo sono, non andranno in elenco. Per stimolare il mercato della produzione di impianti verso principi di eco design e l’uso di componenti recuperabili, in futuro sarà previsto un criterio premiante per l’installazione di impianti (di riscaldamento, raffrescamento, elettrici, etc) che sono progettati per essere disassemblati e riciclati.”

Materia recuperata o riciclata
Infine, tra i criteri che destano particolari perplessità c’è sicuramente quello inerente ai contenuti di materia recuperata o riciclata. Per la recente normativa tale contenuto deve essere pari ad almeno il 15% in peso sul totale dei materiali riutilizzati mentre per le diverse categorie di materiali e componenti edilizi valgono in sostituzione, qualora specificate, le percentuali indicate nei CAM. Il Ministero sostiene che “per i materiali di cui al cap. 2.4.2 si applicano le percentuali indicate nei relativi paragrafi 2.4.2.1 e seguenti. Per altri materiali (se ce ne sono nel progetto) si fa la somma dei relativi pesi e si calcola il 15%. Questo 15% può essere costituito anche dal differente contributo dato dai diversi materiali considerati. Se così non si riesce ad arrivare al 15% di riciclato complessivo, lo si riporta nella relazione tecnica-illustrativa. Se, invece, non ci sono materiali diversi da quelli indicati ai paragrafi 2.4.2.1 e seguenti, restano le percentuali più basse ivi indicate.”

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Appalti, spira il vento dell’Anticorruzione

L’attività dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) è in pieno fermento. In attesa del prossimo 7 aprile – data in cui entreranno in vigore le nuove linee guida Anac sui contratti sotto soglia – l’Anticorruzione, nel marzo scorso, ha inviato al Ministero per le Infrastrutture una serie di proposte per la redazione del decreto SOA. Insomma, le regole attuative del nuovo Codice degli Appalti continuano a tenere impegnati gli operatori di settore. Ma il must sembra essere sempre il medesimo: semplificazione, a tutti i costi, nel rispetto della legalità.

Soa: servono procedure più snelle per la qualificazione
Il nuovo decreto SOA dovrebbe individuare le procedure per la qualificazione delle imprese per i lavori d’importo pari o superiore a 150 mila euro. Ma l’Anac ha rilevato, in più passaggi, un disallineamento sostanziale tra i requisiti formali – attestati attraverso la certificazione SOA – e quelli sostanziali posseduti dalle imprese. Durante la fase delle consultazioni, infatti, sarebbe emerso che i requisiti di qualificazione vigenti non sono considerati idonei ad attestare la capacità esecutiva delle imprese. “Anac ha rilevato che normalmente l’attività di raccolta della documentazione per il rilascio di un’attestazione impegna dalle 2 alle 80 ore/uomo, con una media di 14,8 ore/uomo” scrive Edilportale. “Sei SOA su venti hanno dichiarato di avere già a disposizione un sistema informatizzato che, però, non consente di svolgere tutte le funzioni richieste e quindi andrebbe implementato.”
Le proposte dell’Anticorruzione, dunque, puntano tutto sulla semplificazione delle procedure. Anac propone di consentire l’utilizzo delle annualità fiscali comprese nel decennio antecedente alla data di stipula del contratto di qualificazione. In tal modo, l’impresa potrebbe trovarsi nella condizione di scegliere se utilizzare i migliori cinque anni o, piuttosto, i dieci previsti. Le Stazioni Appaltanti, inoltre, dovrebbero emettere – sempre secondo le prescrizioni Anac – il Certificato di Esecuzione dei Lavori (CEL) entro un termine massimo di trenta giorni. Infine, Anac suggerisce di eliminare la verifica della rispondenza delle categorie individuate nel CEL rispetto al bando di gara per interventi d’importo inferiore a 150.000 euro. Come misura compensativa, però, propone l’inserimento di controlli a campione per almeno il 10% dei CEL.

Linee guida Anac: ecco le novità
Sul fronte degli appalti sotto soglia, invece, il quadro normativo appare meglio definito. Rotazione degli inviti, autodichiarazioni e controlli anti-frazionamento: le nuove linee guida Anac non lasciano nulla d’intentato. Ma cosa vuol dire ‘appalto sotto soglia’?
In sostanza, per gli importi inferiori alle soglie fissate dai regolamenti Ue, gli operatori economici coinvolti dalla Stazione Appaltante spesso tendono a dar vita a un frazionamento improprio dell’appalto – cioè a una sua scomposizione in attività distinte – con l’obiettivo di scavalcare le normative vigenti e, ovviamente, abbassare l’importo a base di gara.
Ma il dettato del nuovo art. 36 del Codice degli Appalti – che disciplina in maniera tassativa l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture d’importo inferiore alle soglie europee – punta decisamente sul principio della rotazione degli inviti e degli affidamenti “in modo da assicurare,” si legge “l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese.” Dunque, per evitare che il contraente uscente si trovi in una posizione di vantaggio per le informazioni acquisite durante l’affidamento precedente, le recenti linee guida stabiliscono che quest’ultimo non possa essere nuovamente invitato a una gara rientrante nella stessa categoria di opere (o nello stesso settore merceologico). La medesima regola è valida anche per l’operatore – seppur non affidatario – invitato nella precedente procedura di selezione. A questo principio può scegliere di derogare solo la Stazione Appaltante – in casi eccezionali – una volta fornite, però, le opportune motivazioni.
Per quanto riguarda l’autodichiarazione invece, Anac chiarisce che è ammessa per i contratti fino a 5 mila euro oppure, in casi specifici, persino per gli appalti fino a 20 mila euro. In quest’ultimo caso, però, l’autodichiarazione deve essere resa seguendo tassativamente il modello di gara unico europeo.

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